Convivere con il cattivo odore
La malattia rara della Tmau che crea più disagio sociale che sofferenza fisica
Un tempo sindromi come la tubercolosi, la varicella o la peste nera erano considerate malattie rare. Questo fino a quando, grazie ai progressi scientifici, non sono state trovate le cure necessarie per ‘normalizzarle’ e trasformare le conseguenze che comportavano in lontani ricordi.
Oggi, pur non essendoci carenza di ricercatori e scienziati, ci sono ancora alcune malattie che attendono una cura definitiva, le cosiddette malattie rare che colpiscono una popolazione molto ristretta e per le quali, in alcuni casi, i trattamenti e le cure sono limitati a causa della minore quantità di ricerche effettuate. Ogni anno, il 28 febbraio si celebra la Giornata delle malattie rare per diffondere la consapevolezza e avviare un cambiamento per coloro che ne soffrono. Secondo il sito rarediseaseday.org, 300 milioni di persone soffrono di malattie rare, con oltre 106 Paesi in tutto il mondo coinvolti nella battaglia alla ricerca di un trattamento medico adeguato. In Italia esiste il Registro Nazionale Malattie Rare (Rnmr), istituito presso l'Istituto Superiore di Sanità al fine di effettuare la sorveglianza delle malattie rare e di supportare la programmazione nazionale e regionale degli interventi per i soggetti affetti da malattie rare (Mr). Data la loro natura, al suo interno sono presenti malattie come la Sindrome di Gardner, un disturbo genetico caratterizzato dalla formazione di tessuti anomali nel colon, o il Nefroblastoma di Wilms, un tumore che deriva dal primitivo abbozzo renale.
Ma non la Trimetilaminuria (Tmau): nota anche come ‘sindrome da odore di pesce’, si tratta di una malattia metabolica dovuta all’incapacità del corpo umano di produrre un enzima specializzato alla degradazione di una sostanza, la trimetillammina (Tma). I pazienti che soffrono di questo difetto genetico ereditario, dovuto a mutazioni a carico del gene Fmo3, accumulano la sostanza attraverso l’alimentazione, essendo essa presente in diversi cibi (tra cui le uova, il pesce e crostacei), e la rilasciano attraverso il sudore, le urine e il respiro. Queste, quindi, acquisiscono un peculiare odore di pesce o uova marcio, per nulla rischioso dal punto di vista medico ma fortemente invalidante da quello sociale.
La voce che ha fatto da spartiacque: il caso di Erica Astrea
È il 7 aprile 2019 e, per la prima volta, esce una puntata de Le Iene con un titolo emblematico: “Erica e la sua sindrome da puzza di pesce marcio”. L’’Erica’ in questione è Erica Astrea, trentasettenne casertana affetta dalla Tmau da tutta la sua vita. «Se dovessi descrivere la mia vita con la sola parola, questa sarebbe ‘rinuncia’, soprattutto ad una vita ‘normale’» Raccontare la sua storia, evidenziando in particolar modo a quelle stesse rinunce dovute alla malattia, è una di quelle cose che maggiormente odia fare, e parlare degli effetti che questa ha avuto sulla sua vita ancora meno. Prende coraggio e, quasi con le lacrime agli occhi, affronta il tema che più l’ha condizionata, ancora prima della scoperta stessa della patologia. «Sin da piccola ho avuto diverse amicizie, ma spesso notavo che anche quelle più strette prima o poi si allontanavo». Erica non capisce perché tutti lamentassero «di sentire un cattivo odore in mia presenza mentre io ero l’unica a non avvertire nulla». Eppure segue un’alimentazione normale, cerca di mettersi a dieta mangiando molte proteine, senza sapere quanto inconsapevolmente alimentasse la problematica. «Ci sono stati due episodi che hanno tracciato la mia vita: il primo, quando una ragazza a scuola di danza mi disse quanto il mio corpo emanasse un odore cattivo. Il secondo, invece, rappresentò la svolta: il mio ex fidanzato, durante una discussione, percepì un odore simile a quello di pesce marcio, ed ebbe il coraggio di dirmelo». Da lì, per Erica, cambia tutto: «Ho iniziato le mie ricerche su Internet, senza risultati, fino a quando sono arrivata al centro di Messina, e di conseguenza alla professoressa Sidoti, che hanno rappresentato la risposta a tutti i miei dubbi: avevo la malattia rara della Trimetilaminuria». La sua prima reazione è quella di «sollievo», perché raggiungere finalmente la «consapevolezza» di non dover più dare la colpa di quell’odore a sé stessa ma ad una patologia genetica ha rappresentato lo spartiacque necessario per dividere l’ignoranza della collettività sulla malattia e la speranza di una vita migliore. «Ci metto la faccia perché, nonostante provi a raccontare da subito la mia problematica ogni volta che faccio nuovi incontri, la discriminazione è sempre all’ordine del giorno: ed è proprio per questo motivo che voglio che si crei un’ampia rete di informazione sulla tematica, affinché altre persone come me possano sentirsi accolte, comprese, diventare parte integrante di un contesto lavorativo e sociale».
Oggi Erica è anche a capo di “Insieme per la Tmau”, un'associazione no-profit il cui obiettivo è quello di sensibilizzare l'opinione pubblica italiana e scongiurare gravi conseguenze con una diagnosi precoce. Questa è accompagnata da un’altra organizzazione, l’Uniamo Federazione per le Malattie Rare Onlus, che, con oltre 170 realtà federate, rappresenta la comunità delle persone con malattie rare che hanno l’obiettivo di dare voce a quasi 2 milioni di persone, quasi il 5% della popolazione italiana, che quotidianamente soffrono in silenzio di un disturbo ‘anormale’. La Tmau però, secondo Erica, non rappresenta solo un freno alla sua vita dal punto di vista medico, ma anche e soprattutto sotto quello economico e psicologico: «Non avere il supporto dello Stato ci pesa, perché questa malattia è invalidante sia per l’indipendenza lavorativa che per la stabilità della salute mentale». Sperare in un sussidio, come succede per altre patologie, sarebbe «il minimo” che lo Stato potrebbe fare per facilitare un miglior processo d’inclusione, «ma la strada verso la soluzione definitiva alla malattia è ancora lontana». Se nel primo caso la medesima soluzione, secondo Erica, sta nel supportare i costi per una dieta ferrea da seguire in maniera maniacale, nel secondo è rappresentata da un sostegno psicologico: «Bisogna escludere quelli che sono i precursori della molecola maleodorante, quali colina, carnitina e la lecitina», e quindi eliminare tutti alimenti che ne contengono come carne, pesce, legumi e prodotti integrali. Questo va «bilanciato con un corretto utilizzo di un supporto psicologico, necessario per ricordare a sé stessi che la risposta non è la depressione ma il coraggio di saper accettare la propria condizione». Il giusto bilanciamento che, per il momento, sta ottenendo i risultati sperati: «Ho avuto un’evoluzione positiva, che mi ha permesso di trasformare una problematica in un’occasione per impormi, senza vergognarmi, anche in ambito emotivo ed interpersonale». L’appello finale di Erica, mentre legge il commento di una persona affetta dalla malattia in un gruppo privato creato appositamente per scambiarsi opinioni e suggerimenti, è chiaro: «Cerchiamo di esseri uniti, non abbiamo nulla da perdere. Anzi: attendiamo da molto tempo di alzarci la mattina e iniziare una giornata piena di vita, lasciando alle spalle solitudine e disperazione».
La linea generazionale della malattia
Ma come viene vissuta la malattia se affrontata in diversi stadi della vita? È il caso di altri pazienti affetti dalla Tmau, che insieme costituiscono la linea generazionale della patologia.
Mirko è un bambino barese di 9 anni, che studia in terza elementare e ancora troppo piccolo per comprendere appieno la malattia. A parlare della sua condizione però è sua madre, Marianna, che affronta il tema con lo stesso coraggio di Erica: «Sin dalla nascita di mio figlio avevo notato un odore particolare, quasi di pesce fresco, che mi portava ogni volta ad utilizzare dei detergenti molto aggressivi per eliminarlo ma che, inevitabilmente, alteravano il pH della pelle».
Lo scherma che si ripete è lo stesso: «A dicembre 2016, dopo avergli fatto mangiare dei bastoncini di pesce, l’odore è ricomparso e mi sono voluta dare una risposta definitiva attribuendo alla Tmau il nome della malattia di cui Mirko soffriva». La diagnosi arriva immediatamente: è metà 2017 e all’ospedale Sant’Orsola di Bologna Mirko, nonostante la tenera età, scopre che quella ‘puzza di pesce’ è legata alla Trimetilaminuria.
«Fortunatamente non ha subito bullismo a scuola o con gli amici per la sua condizione», sottolinea Marianna, «anzi, lui ha imparato molto presto a convivere con la malattia, diventando più grande della sua età senza davvero volerlo». Anche Mirko ora segue una dieta molto rigida come palliativo principale: «Non mangia broccoli, carne, pesce, uova, e non deve mai esagerare con il latte», rimarca Marianna.
Nonostante una malattia anomala così stigmatizza, Marianna dice di sentirsi «fortunata»: «Nella disgrazia, possiamo almeno dire di avere il vantaggio di non affrontare una malattia letale. Ed è per questo motivo che non bisogna assolutamente nascondersi, ma essere d’esempio per gli altri che ancora oggi vivono nell’ombra della discriminazione».
Anche Giorgia e Laura vivono le medesime situazioni, ma l’età cambia: la prima, Giorgia Kirkham Tranchida, è una ventiduenne di Messina, studentessa di medicina presso l’Università degli Studi di Milano. La seconda ha 31 anni, è lombarda, e lavora in ambito commerciale per un’azienda di informatica.
Nonostante i solo 10 anni di differenza, la risposta alla malattia è molto simile: «Ho da sempre accettato la mia mutazione genetica, nonostante questa mi abbia portato nel tempo a sentire un maggiore senso di dissociazione dalla società, ad allontanarmi persino dalle relazioni più strette per l’imbarazzo che provavo», riferisce una Giorgia solare, sottolineando che, ad oggi la maggiore consapevolezza che ha acquisito la «aiuta quotidianamente a non sentirsi più in colpa, ad accettarsi di più».
«Non ne ho mai parlato con la mia famiglia», fa invece sapere Laura, che però ribadisce di non averlo fatto per non far sentire in colpa i genitori per la mutazione genetica che porta con sé, piuttosto che per insicurezze personali: «Ho sempre avuto amici, relazioni sentimentali, e non ho mai davvero sentito il peso della malattia sulla mia salute mentale». Un secondo punto in comune è quello legato alla difficoltà nel parlare apertamente della patologia: «Il rischio è quello di sviluppare patologie psichiatriche che ti condizionano la vita», riferiscono entrambe, sottolineando quanto, in questi casi, la diagnosi possa davvero rappresentare una tutela rispetto alla condizione invalidante alla quale la malattia spesso condanna.
«Il fatto che che ci siano 20 persone con la malattia oppure 2000 può cambiare radicalmente la prospettiva: se non facciamo sapere che ci siamo, saremo sempre dei malati invisibili e per noi non ci sarà mai una cura», rimarca Laura. Il consiglio di Giorgia, futura dottoressa, ripercorre le stesse orme: «Parlarne, parlarne e ancora parlarne, affinché si crei consapevolezza e non isolamento».
Luisa Fabbrini è l’ultima a metterci la faccia. Settantenne di origine pisana, è un ex professoressa di religione che ha combattuto con lo stigma della malattia «da ormai troppi anni”. «Da quando ho perso mio marito, la mia vita sociale è inesistente: vivo chiusa tra le quattro mura di casa mia, non vado più al cinema o al teatro, o alle manifestazioni di qualsiasi genere, nemmeno più in chiesa».
La risposta alla malattia di Luisa è drammaticamente drastica: «Sono arrivata a pesare 43 kg nonostante provi continuamente a bilanciare la mia dieta con cibi sani e bevendo tanta acqua», fa sapere Luisa.
«Io non avverto il mio odore, ma lo intuisco dalle espressioni sui volti delle persone che mi sono intorno»; volti che, secondo Luisa, parlano da sé: «Il senso di frustrazione, depressione e voglia di piangere mi accompagnano quotidianamente, e tutto questo è alimentato dalla continua sensazione di inadeguatezza».
La risposta di Luisa è molto diversa da tutti gli altri casi, ma il messaggio finale che manda è incoraggiante: «Non abbiate vergogna a parlare delle sofferenze che questa malattia ci infligge e degli aiuti che possiamo trovare in tutti i professionisti che provano, nonostante tutto, a lenire le ferite della nostra anima».
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Una soluzione (futura)? Forse si, ma bisogna attendere
Se ad oggi l’unica soluzione alla malattia sembra essere l’implementazione di una dieta in grado di bloccare gli effetti della sovraproduzione di Fmo3, dall’altra bisogna avere la «pazienza necessaria per aspettare che le tecniche da sviluppare aumentino», soprattutto in relazione ad un aumento del numero di casi che, per il momento, «risulta essere ancora troppo modesto per essere studiato a fondo».
Lo pensa il dottor Addolorato, il quale si sofferma sulla necessità di trovare degli «studi di confronto” per «standardizzare nuove competenze mediche».
È della stessa idea la dottoressa Sidoti, la quale è ancora più ottimista sulla possibilità di trovare una cura: «Negli ultimi mesi, insieme ad una casa farmaceutica, abbiamo lavorato alla sperimentazione di un farmaco che ha dato risposte positive», fa sapere la ricercatrice dell’Università di Messina. «Non possiamo ancora sponsorizzarlo perché la consegna del brevetto è in fase di evoluzione», sottolinea Sidoti, «ma quello che posso confermare è che i risultati sono incoraggianti».
Come direbbe Neil Armstrong, ‘un piccolo passo’ per la scoperta di una soluzione potenzialmente definitiva alla malattia, ma ‘un gigantesco balzo’ per la ricerca, con l’Italia che sta dimostrando di meritarsi il primo posto.